Comunicazione

Estratto da “C’é chi dice no”  di Stefano Di Polito, Alberto Robiati, Raphael Rossi; Ed. Chiarelettere (2013)

Infine, crediamo fermamente che l’etica di un amministratore pubblico debba passare attraverso la sua capacità di comunicare in modo chiaro, trasparente, completo, istruttivo e coinvolgente. In Italia, anni di informazione parziale, incompleta, manipolata e manipolatoria, hanno prodotto modelli distorti, tanto che oramai neppure ci aspettiamo più di essere informati, dai media come dalle istituzioni, in modo diretto, semplice, chiaro, efficace.

Diversi anni di lavoro in progetti e strategie di comunicazione pubblica, fianco a fianco con politici e funzionari, ci hanno permesso di rilevare direttamente quanto l’informazione sia gestita come il potere, secondo linee d’azione volte a generare consenso, e non orientate dall’unico obiettivo che conta: l’utilità pubblica. Ci siamo rassegnati, tanto per cominciare, a registrare la mancanza di puntualità nell’informare. Addirittura, in alcune organizzazioni pubbliche, l’assenza totale di informazione è ritenuta un’opportunità, specie quando l’oggetto dell’informazione non è esattamente positivo: «Tanto poi le cose si rimettono a posto da sole», si dice. Perciò, l’ordine per tutti è il silenzio, guai a chi ne parla, soprattutto con i giornalisti.

Un’altra strategia è l’informazione a corrente alternata. Un bel lancio di un’iniziativa con (almeno) una conferenza stampa, sotto i sapienti riflettori opportunamente sfruttati da fotografi amici, e poi pioggia di comunicati stampa e dichiarazioni di circostanza. In seguito nessun aggiornamento, eccezion fatta per qualche uscita pubblica «di rabbocco», per mantenere il calice sempre bello pieno di entusiasmo e buoni propositi. A meno che, certo, le cose non vadano male, caso in cui si passa immediatamente alla strategia del silenzio di cui sopra o, come ultimo rimedio, allo scaricabarile.

Noi pensiamo che un’informazione chiara, tempestiva, puntuale e continua sia l’unica garanzia di trasparenza che, nel lungo periodo, consenta di avvicinare la cittadinanza all’ente pubblico, accompagnandola in un percorso di conoscenza del funzionamento dell’organizzazione. Su che cosa deve informare un amministratore pubblico etico? Su ciò che fa: gli obiettivi più o meno ambiziosi che si prefigge, i risultati concreti e operativi che si attende, i costi sostenuti per avviare le diverse azioni o da sostenersi per attuarle (le cifre vere, dichiarate in formule comprensibili, dirette, sintetiche, senza gergalismi e tecnicismi tipici dell’«ammi- nistratese»). E inoltre occorre (sapere) informare sui tempi di realizzazione auspicati e realistici (anche se ci verrebbe voglia di scrivere «sinceri»).

Non basta informare, però. Gli amministratori nel loro rapporto di «comunicazione» con la cittadinanza devono svolgere anche un’altra funzione: educarla all’impegno civico, a forme di volontariato e attivismo e al controllo delle istituzioni. Ciò significa investire affinché i cittadini, utenti del servizio pubblico, ne diventino anche custodi.

Questo tipo di azioni educative necessita di investimento (di energie, competenze, tempi, soldi) anche per coinvolgere la società civile: l’imprenditoria, il mondo della ricerca, quello della cultura, l’associazionismo, i cittadini attivi, i giovani. Come farlo? Qui sorgono i problemi per tanti politici e amministratori abituati per decenni a muoversi soltanto ed esclusivamente nei propri contesti di lobby e protettorati (politici o economici, a seconda dei casi). Per coinvolgere è indispensabile incontrare e conoscere le persone, costruire legami sociali, rinsaldati su relazioni umane autentiche, non manipolatorie o false. Altrimenti la regola vigente sarà quella del «do ut des», dello scambio utilitaristico e opportunistico. E le derive conseguenti sono facilmente immaginabili, visto che stiamo descrivendo il terreno, assai fertile, in cui prolifera la corruzione.

Relazionarsi, incontrare, conoscere e, niente di meno che, ascoltare. La cosa si fa difficile. E non è un caso, allora, che siano necessarie competenze nuove, sociali, «liquide», creative e adattative. Servono capacità di relazione con grandi gruppi, occorre saper comunicare e collaborare con i territori (si pensi ai comitati di quartiere, ai gruppi di cittadini organizzati). L’ente pubblico che decide di intervenire in un territorio o in un ambito di servizio provando a non far cadere dall’alto le decisioni, ma avviando percorsi di progettazione partecipata, inizialmente riceve dalla gente, dagli abitanti o dagli utenti cui si rivolge, resoconti dei disagi e dei danni subiti negli anni, lamentele su disservizi e problemi, bollettini ed elenchi sull’infinità di aspetti critici.

Soltanto dopo una prima fase di ascolto del dissenso e di presa in carico del disagio, attraverso la definizione di una tabella di marcia condivisa per risolvere le difficoltà, è possibile lavorare insieme, fianco a fianco, tra cittadinanza e istituzioni.