Approfondimenti

La protesta dei Forconi: qualcuno apra quella porta

Nel nostro libro “C’è chi dice no”, scritto con Alberto Robiati e Raphael Rossi per Chiarelettere, stimoliamo la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica; nei giorni passati, ognuno di noi tre, quasi senza confrontarsi, ha resistito alla tentazione di etichettare la mobilitazione dei Forconi come fascista o di nuova destra, pur comprendendo le ragioni che hanno spinto moltissimi a lanciare con forza tale allarme per la democrazia.

Ho osservato con trepidazione i fatti dell’ultima settimana evitando di esprimermi a caldo per cogliere la dimensione complessiva della protesta.  Così, sono sceso in piazza per vedere da vicino le persone che manifestavano, in particolare lunedì 9 dicembre, e ho ritrovato, è vero, dei “volti noti” come direbbe la Questura o come hanno scritto in molti sui social media per denunciare la partecipazione di Casa Pound o degli anarchici dei centri sociali o dei tifosi della Juve o dei tifosi del Toro, solo che le facce famigliari che ho scorto tra la piazza erano degli ambulanti di Porta Palazzo, dove tra l’altro vivo, quelli che hanno il macchinone e non fanno gli scontrini, ho sentito dire al bar; le facce di molti cittadini extracomunitari, quelli che accettano condizioni miserrime pur di lavorare, ho sentito dire in altre piazze; le stazze di quarantenni inferociti, quelli che fino a ieri guardavano il Grande Fratello, ho letto su molti post, mentre noi a manifestare anche per loro.

C’ero quando i poliziotti si sono tolti i caschi, applauditi in particolare da un gruppetto di ventenni, sedute a terra con fogli scritti a pennarello, come si fa per gli One Direction e ho letto poi “gli appelli al manganello“, addirittura da parte di chi quel manganello lo ha provato sulla propria pelle, in val di Susa o a Genova, per esempio, e anche lì io c’ero.

Una “nevrosi sociale” portata all’eccesso dai social media che rivela come ci siamo confrontati con una protesta inedita per il nostro paese, che non a caso ha avuto il suo epicentro a Torino, città da sempre anticipatrice di fenomeni politici, sociali e culturali.

A una settimana dai “forconi” pur respirandone ancora l’odore, fumogeni e lacrimogeni compresi, e pur vivendone ancora i disagi, lunedì lo sciopero dell’azienda di trasporto locale, che presto diventerà privata, ha creato piccoli collassi tra le arterie della città, stiamo lentamente rimuovendo il black out, innanzitutto emotivo, vissuto nei primi giorni della scorsa settimana.

Spero di sbagliarmi ma credo che questa esplosione di piazza avrà degli straschichi in futuro: il movimento dei Forconi segna innanzitutto una nuova modalità di protesta, senza rappresentanza, efficacemente disorganizzata, difficile da interpretare persino dalla Questura, che ritroveremo altre volte per le nostre strade, oltre a contenere, ahinoi, lo sdoganamento di una richiesta politica di una vera destra, militare e dittatoriale, quella che Berlusconi non ha mai rappresentato in Italia, pur raccogliendone il voto, e che è presente in ogni nazione europea.

Ci sono stati così tentativi repentini di riprendersi la piazza da parte di movimenti attivi da tempo, azioni sacrosante, soprattutto dove il limite democratico era stato di gran lunga superato, in particolare nella cintura di Torino, a Settimo Torinese e a Nichelino, gli ultimi casi, azioni dimostrative a cui si affida la speranza che possano tornare ad essere rappresentative.

Almeno un terzo degli italiani, infatti, si astiene durante le votazioni, cioè, non si sente rappresentato, un dato in continua crescita; il 40% dei giovani è disoccupato, il 27% degli under 35 rientra nella categoria dei Neet, che detta così resta una sigla, a volte tradotta in modo simpatico con “né-né”, cioè né occupazione, né formazione, ma che riportata a immagini reali, significa vivere giornalmente senza l’idea di costruirsi un futuro, rinunciando a cercare lavoro o a prepararsi per una una professione, pur essendo nel pieno delle forze fisiche e mentali. Altri dati ce li fornisce l’osservatorio del Gruppo Abele che non a caso sta lanciando una campagna contro la povertà dal titolo “Miseria ladra”.

I volti noti scesi in piazza sono persone che hanno scelto di partecipare alla vita pubblica, magari per la prima volta, perdoniamoli per tale sfrontatezza, che continueranno a farlo, alternando, a modo loro, quindi, imprevedibile, azioni sui social media a movimenti di piazza; alcuni finiranno per sostenere un nascente movimento di destra, forse guidato da leader in Jaguar con “Il Giornale” sulla cappelliera, evocando “il ritorno di Mussolino”, purtroppo ho sentito anche questo, o di Hitler “perché non si arriva alla fine del mese”.

L’unica risposta possibile, soprattutto in questo momento di emergenza, è aprire con fiducia le istituzioni alla partecipazione; se i cittadini stanno bussando violentemente alla porta dei Palazzi della Regione o dei Palazzi del Comune, significa che quella porta è stata per troppo tempo chiusa, non solo perché succedevano chissà quali intrallazzi, ma per arretratezza culturale di una fetta di politici, che non ha compreso per tempo e non comprende tuttora le opportunità offerte dagli odierni strumenti di comunicazione in termini di incisività e miglioramento dell’attività pubblica.

La partecipazione del territorio è stata relegata ad assessorati minori, senza staff e budget, per intenderci, ed è diventata nevralgica solo quando finalizzata ad accrescere consenso politico ed elettorale, dimenticando però di affiancarla alla partecipazione reale, quella di piazza, sfociata in modo virulento a Torino e nel resto d’Italia, lasciando esterrefatti tanti cittadini attivi che si erano assuefatti alla partecipazione virtuale alla vita pubblica, compresi gli elettori del movimento Cinque Stelle.

Nel nostro libro “C’è chi dice no” dichiariamo in modo convinto che “i cittadini possono risanare lo stato”, una frase scelta addirittura come sottotitolo del libro, solo a condizione che gli amministratori restituiscano loro il potere di cambiare la politica.

La protesta del 9 dicembre è una fragorosa richiesta di ascolto da parte dei cittadini, un gesto molto screanzato per richiamare l’attenzione.

Alla lezione impartita dalla piazza e dai poliziotti senza caschi si dovrebbe rispondere spalancando come non mai le porte delle istituzioni, innanzitutto, ai cittadini già attivi, associazioni e movimenti organizzati, e poi cercando tramite loro di includere nuovi cittadini e nuovi movimenti, in un percorso di cittadinanza attiva per individuare le soluzioni migliori per questa dolorosa crisi sociale; il timore, invece, è che tali fatti creino nuovi alibi per arroccare il potere, lasciando, invece, campo libero a “una guerra tra poveri”, già in atto sui social media e che presto si potrebbe trasferire per strada.

Se si riavvicinano i cittadini allo stato, seppure con grande impegno e fatica, si raccolgono nuove idee, si migliorano i servizi, si alimenta il senso della vita comunitaria.

Nel libro lo raccontiamo prendendo spunto da un’esperienza realizzata personalmente a Napoli dove, in piena emergenza monnezza, abbiamo aperto ai cittadini addirittura l’azienda pubblica dei rifiuti, creando in pochi mesi un presidio civico, ancora oggi vigile e attivo, alternando azioni sul territorio a iniziative sui social media.

Un’azienda pubblica messa in sicurezza, già nella seconda metà del 2011, grazie al coinvolgimento dei cittadini, che vigilano un settore in cui il rischio di infiltrazioni malavitose è sempre molto alto.

Qualcuno apra, dunque, quella porta ai forconi, o si attrezzi per farlo, facendosi aiutare dai tanti movimenti civici diffusi nel paese, senza accampare alibi o sperare in un fenomeno passeggero; certo, sarebbe fantastico che ad attenderli ci fossero dei politici ispirati a un’altra figura riemersa in queste ultime confuse giornate, il presidente Sandro Pertini, basta riguardare alcuni suoi interventi su Youtube per capire come fare politica nel 2013.

Stefano Di Polito
(fondatore con Alberto Robiati e Raphael Rossi dell’associazione www.signorirossi.it)

 

“Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”

E’ il caso di prendersi qualche minuto e dare una lettura. Che ne dite? E magari pure qualche secondo in più per condividere e stimolare altri a leggere. Specie quelli che di solito non leggono. Se proprio vogliamo fare le cose per bene, parliamone ai nostri figli…

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“Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”

di Italo Calvino* FONTE: MICROMEGA newsletter del 16/10/2012

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”,Meridiani,Mondadori

Signori Rossi: intervista a Alberto Robiati e Stefano Di Polito

[ Un’intervista della Fondazione Benvenuti in Italia a Stefano Di Polito e Alberto Robiati ]

Come siete giunti a occuparvi di comunicazione sociale e politica?

Siamo sempre stati vicini all’idea di una comunicazione con fini sociali e “politici” (nel senso più elevato del termine). E siamo anche convinti che, in un paese in cui la maggioranza del Parlamento per anni ha riconosciuto come leader un magnate della comunicazione, ogni attività comunicativa ha necessariamente risvolti sociali e politici. E ciò secondo noi vale sia per gli individui, sul piano interpersonale, sia per i gruppi e le organizzazioni, sotto il profilo pubblico e mediatico.
Come individui abbiamo entrambi una personalità “comunicativa”, ma in particolare abbiamo una cosa che definiamo “talento”: è l’attitudine ad applicare in ogni ambito la nostra capacità creativa.
Negli anni abbiamo studiato e fatto ricerca, e poi sperimentato e praticato professionalmente. Fin da subito abbiamo compiuto una scelta netta: lavorare soltanto a campagne sociali, che veicolassero messaggi di utilità.
Perciò ci definiamo “comunicatori di pubblica utilità” e mettiamo la creatività al servizio dei valori in cui crediamo. Così è nato il Laboratorio Creativo:www.laboratoriocreativo.com.
E in questo modo aderiamo a quanto sancisce l’articolo 4 della Costituzione italiana: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Qual è a vostro modo di vedere lo stato dell’arte della comunicazione nel nostro Paese? Vi sembra imbavagliata? Omologata?

Ci sembra in profonda trasformazione, quasi volesse liberarsi di un modello ormai superato. In questi casi si aprono spazi interessanti e occorre fare massa critica tra “addetti ai lavori” e tra “destinatari della comunicazione”.
Noi definiamo “creative divide” il divario tra chi decide di abbracciare un modello innovativo, costituendo un’avanguardia e creando nuove tendenze, e chi invece resta imbavagliato e omologato, arroccato dietro vecchi schemi senza vivere il cambiamento.
La sfida per noi sta nel recuperare i valori e i saperi autentici che il modello politico ed economico ha completamente stravolto, in Italia, a partire dagli anni ’80. Oggi, cerchiamo di coniugare l’innovazione con l’autenticità, l’etica con la creatività. In questo senso, facciamo comunicazione e marketing “responsabile”. Nel nostro modo di intendere, il concetto di responsabilità (degli impegni, delle azioni, dei risultati, delle conseguenze) non è una qualifica connotativa, ma è un elemento intrinseco, imprescindibile, della comunicazione. Tutta la comunicazione deve essere responsabile, secondo noi. E ciò deve partire dalle relazioni umane, interpersonali, uno a uno. Per poi estendersi alle collettività e ai soggetti che ricoprono un ruolo sociale (i partiti politici, i movimenti, la società civile, i media, le aziende, le istituzioni…).
Per farlo, poiché ci si muove in territori pieni di spigoli, rigidità e condizionamenti, sono necessarie competenze creative, quali immaginazione sensibile, capacità di integrazione, espressività ed estro artistico!

Quali sono secondo voi i fatti politici che al di là delle macro notizie (Monti, Spread, Legge elettorale) dovrebbero essere portati all’attenzione dell’opinione pubblica?

Quel che conta, sempre, quando si parla di politica è il futuro. Ecco, secondo noi occorrerebbe parlare del futuro in modo diverso, senza paura di rompere gli equilibri partitici ed economici.
Ci manca la capacità di visione, la lungimiranza, l’attitudine a immaginare scenari, a individuare tendenze, interpretare i cambiamenti. Non siamo abituati all’azione strategica, di prospettiva. Tutto il discorso politico (sostenuto dai media) è centrato sul passato, su antiche convinzioni, e sulle convenienze del presente. Quando i verbi vengono coniugati al futuro si tratta purtroppo soltanto di annunci e promesse, legati soltanto all’opportunità immediata.
Invece per noi la capacità strategica e la capacità di visione del futuro dovrebbero essere insegnate a scuola con le tabelline. Dovremmo essere cresciuti ed educati a pane e creatività, una competenza tanto trascurata quanto indispensabile per definire nuovi scenari futuri e progettare quindi un mondo migliore.
Proponiamo perciò di pensare al domani in maniera collettiva, democratica e sostenibile. E poi invochiamo il coraggio di raccontare quali sono quegli “equilibri” di cui parlavamo prima, che tengono in scacco il nostro paese. Qual è il ruolo delle mafie, per esempio, o delle lobby politiche e dei potentati economici? Servirebbe ampliare e aggiornare la riflessione svolta da Rizzo e Stella con il famosissimo trattato sulla “casta”. Ci occorrono indagini più profonde, con lo scopo di informare e mobilitare l’opinione politica, indicando anche le vie del cambiamento.
Certo, tutto questo darebbe origine a una generazione di cittadini nuovi, più informati, consapevoli, più civicamente e socialmente maturi. Dunque dotati di capacità di discernimento e autonomia intellettuale. Sì, ci rendiamo conto che sarebbe una rivoluzione epocale, assai temuta da chi gestisce il potere oggi.

A quali iniziative politiche e sociali vi state interessando?

Stiamo osservando con interesse l’avvicinamento alle elezioni politiche del 2013. I media tendono da anni a riportare fedelmente i “comunicati” dei vari partiti; anche quando si tratta di commenti o editoriali c’è l’impressione che siano risposte a strategie decise a tavolino (per non dire “a tavola”…), tra i protagonisti di una cricca. Viene alla mente Elio Petri e il suo visionario “Todo modo”… Crediamo quindi che sia utile monitorare il modo in cui le diverse testate giornalistiche (giornali, tv, web) affrontano i vari temi, non tanto per informarsi, quanto per chiedersi “che cosa c’è dietro”, per decifrare come mai si dicono certe cose. Nessuno “specchio” del mondo, la verità pare sempre più distante dalla rappresentazione riportata dai media.
Un altro tema che ci interessa da vicino è l’economia cosiddetta sostenibile. Siamo convinti, come dice il nostro amico sociologo Domenico De Masi, che il capitalismo sia fallito, avendo dimostrato di saper produrre ricchezza, ma di non saperla distribuire (al contrario del comunismo, in grado di distribuirla ma non di produrla…). Oggi la sfida per tutti è notevole: individuare forme alternative, nuove o antiche, in grado di generare nuovi equilibri. Parliamo di aspetti pratici e quotidiani, come il ricorso al riutilizzo, al recupero, alla riparazione, all’uso inconsueto, al baratto, allo scambio sociale, alle banche del tempo, allo sviluppo locale a km zero e così via. Tutti meccanismi che metteranno sempre più in discussione il diktat dello sviluppo sempre e comunque, della produzione, della crescita del Pil ecc. In un’epoca in cui lo sfruttabile è stato sfruttato e siamo oltre il punto di non ritorno riguardo il consumo di molte risorse del pianeta, siamo in tanti – fortunatamente – in tutto il mondo a ritenere che occorra individuare una nuova via. Di nuovo, torna a essere fondamentale la comunicazione responsabile.
Pensiamo a diverse importanti aziende che stanno tentando una “riconversione etica”, rappresentando segnali per un futuro affascinante. Se questa strada fosse imboccata dall’intero paese, non dovremmo temere alcuna crisi!

A proposito dei Signori Rossi: Benvenuti in Italia si è da subito schierata al fianco di Raphael Rossi nella sua battaglia per l’affermazione della legalità; è appena arrivata la sentenza di primo grado che gli da’ ragione; quale sinergia si può trovare tra Bit e i Signori Rossi, nonché tra Bit e voi?

Come i Signori Rossi, anche Benvenuti in Italia sta cercando di ridare un futuro al nostro paese. Noi siamo fiduciosi perché le diatribe che tengono lontani dalla realtà molti esponenti politici italiani creano per molti nuovi soggetti attivi, ampi margini di intervento e spazi d’azione per incontrare i reali bisogni delle persone.
La collaborazione tra Signori Rossi e Benvenuti in Italia si può allora tradurre in azioni locali o nazionali con l’obiettivo condiviso di favorire la diffusione di una cultura etica nella gestione dei beni comuni.
Il movimento dei Signori Rossi è sostanzialmente un esempio concreto di comunicazione responsabile, in cui noi abbiamo lavorato alla definizione di strategie per la sensibilizzazione di molti cittadini su un tema delicatissimo e percepito come lontano da interessi quotidiani, quale è la corruzione. Migliaia di cittadini si sono avvicinati aderendo ai medesimi valori e auspicando lo stesso futuro di miglioramento: così facendo, attraverso l’impegno civico, stanno diventando man mano più esperti di “cosa pubblica”, assumendo un decisivo ruolo di controllo sociale e di accompagnamento delle amministrazioni pubbliche, naturalmente, quelle guidate da persone con senso etico. A tale proposito, crediamo sia utile chiarire cosa intendiamo: per noi agire eticamente significa lavorare con competenza specialistica puntando alla qualità dei risultati, da una parte ottenuti attraverso l’efficienza dei processi e la valorizzazione delle persone coinvolte, e dall’altra generati grazie alla trasparenza verso la cittadinanza (più “educata” civicamente e così in grado di partecipare all’amministrazione dei propri territori).
Quanto fatto da noi con i Signori Rossi è replicabile con Benvenuti in Italia, dal momento che condividiamo la missione, la filosofia di lavoro e i valori alla base. Perciò siamo pronti a ideare campagne di comunicazione responsabile e partecipazione dei cittadini, con l’obiettivo di risvegliare il protagonismo degli italiani e di far crescere la proposta politica di Benvenuti in Italia.

Signori Rossi: com’è nato il virus dell’anti-corruzione

[ UN NOSTRO APPROFONDIMENTO PER NARCOMAFIE ]

Da esperti (e praticanti) della comunicazione di pubblica utilità ci colpisce ritrovare nella corruzione il paradosso comunicativo tipico della criminalità organizzata: tutti sanno e nessuno parla.

In Italia la corruzione è un fenomeno dilagante: una ricerca di Eurobarometro sostiene che nel 2011 più di 5 milioni di italiani si sono sentiti richiedere o hanno ricevuto in offerta una tangente.

Nel 2010 solo 1200 persone sono state denunciate e solo 332 sono state le condanne. Abbiamo selezionato questi dati, tra i tanti, perché li riteniamo emblematici e significativi dal punto di vista informativo.

I Signori Rossi nascono, appunto, per riempire questo vuoto comunicativo (e informativo) e contrastare le condizioni che rendono non (o poco) punibile la corruzione. La nostra intenzione è stata da subito quella di assicurare visibilità mediatica al fenomeno e creare conoscenza e informazione sul tema, oltre che stimolare la partecipazione dei cittadini.

Ma andiamo per gradi. Se è vero che la corruzione colpisce circa il 12% degli italiani, è molto probabile che tra i nostri amici o conoscenti qualcuno abbia vissuto l’esperienza della mazzetta.

Così è capitato a noi: Raphael Rossi, compagno di studi universitari, ci ha raccontato di aver denunciato nel 2007 Giorgio Giordano, allora presidente dell’Amiat (l’azienda pubblica per la raccolta dei rifiuti a Torino), per avergli proposto, quando Raphael era nel Cda, una tangente da 50mila euro (“cresciuta” poi fino a 125mila), al fine di rimuovere il suo veto sull’acquisto di un macchinario da 4,3 milioni di euro.

Raphael ci descrive quindi le conseguenze della sua decisione. Intanto non viene confermato nel Cda di Amiat, indebolendo la sua posizione professionale. Quindi i giornali locali raccontano solo “telegraficamente” (come per non dare troppo fastidio) la vicenda giudiziaria al momento degli arresti. Inoltre, il processo tarda a partire. Ma soprattutto, poiché né la Città di Torino né l’Amiat si costituiscono parte civile, si ritrova a pagare le spese dell’avvocato che lo rappresenta come parte civile e testimone al processo.

A questo punto, decidiamo di metterci in azione. Sapendo di alcuni cittadini indignati per quanto accade, immaginiamo uno scenario: innescare un movimento nazionale di cittadini comuni a sostegno di Raphael in questa vicenda. Vogliamo dimostrare che i cittadini possono tornare a collaborare con gli amministratori pubblici per costituire un presidio di controllo sociale.

Per noi il passo da qui ai “Signori Rossi – Corretti e non corrotti” (www.signorirossi.it) è brevissimo: Rossi è il cognome più comune, la correttezza è il valore più diffuso, ma l’etica è un comportamento (tra gli amministratori pubblici) a volte raro. Queste le premesse identitarie per diventare una sorta di presidio permanente contro la corruzione.

Come in ogni campagna di comunicazione sociale, ci siamo chiesti quali fossero le principali resistenze al cambiamento, andando a fondo nell’analisi di questa particolare omertà. Le abbiamo individuate in un atteggiamento psicologico di impotenza tipico degli italiani negli ultimi decenni, nella mancanza di informazioni e servizi sull’anti-corruzione e in alcuni vuoti del sistema giuridico.

Abbiamo voluto agire anzitutto sugli aspetti psicologici. La filosofia dei Signori Rossi non accetta valutazioni del tipo “così fan tutti”, anzi sostiene che i cittadini corretti siano la maggioranza. Perciò se facessimo circolare le informazioni sulla corruzione e ne raccontassimo le storie (il secondo ostacolo al cambiamento: l’informazione è assente, la gente non sa…) riusciremmo a fare pressione sul sistema politico (e su quelli mediatico e imprenditoriale) fino a indurlo a colmare alcune lacune normative (l’ultimo ostacolo al cambiamento).

Abbiamo individuato così le “opportunità” che il contesto ci offriva: la diffusione in tutta Italia dei casi di corruzione e la loro dimensione glocal (fortemente simbolica su scala locale e globale); la forza aggregativa delle storie di corruzione che creano nei cittadini mobilitazione e forte senso di speranza; lo sviluppo dei social media e la presenza sul territorio di soggetti attivi con cui rafforzare la rete: Libera e Avviso Pubblico, soprattutto.

Inoltre, dal 2011 abbiamo promosso sul sito Signorirossi.it il servizio online “SOS corruzione” di supporto e orientamento per i cittadini e gli amministratori pubblici in materia di anti-corruzione, grazie all’aiuto volontario di professionisti esperti in vari ambiti: giuridici, psicologici e amministrativi. Sono arrivate centinaia di segnalazioni, indice di un bisogno molto diffuso.

L’esito di questo movimento attivato in modo volontario e gratuito sul territorio e sul web ha fatto sì che il processo Amiat sia diventato presto il simbolo di altri processi (purtroppo pochi a dir la verità) che si celebrano in Italia per fermare lacorruzione.

Inoltre, un servizio su “Report” (Rai 3) e una petizione online promossa con Il Fatto Quotidiano, firmata da più di 40mila persone, hanno indotto Amiat a costituirsi parte civile e a pagare le spese processuali.

A fine 2010 dopo tre anni di attesa, finalmente, sono iniziate le udienze preliminari che hanno portato al patteggiamento a un anno da parte di Giorgio Giordano e il rinvio a giudizio di tutti gli imputati.

Il processo di primo grado parte a gennaio 2012 con la “rilevanza sociale” riconosciuta dai giudici che consentono le riprese in aula.

Si è concluso venerdì 6 luglio con la condanna a 21 mesi per tentata corruzione a Malaspina e Succio, proprietario e amministratore della VM Press, la ditta di Alessandria che ha tentato di piazzare il macchinario.

Nel giorno della sentenza abbiamo deciso simbolicamente di fondare l’associazione dei Signori Rossi, che conta su un’ampia rete territoriale con gruppi regionali attivi in Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana, Lazio, Sardegna, Campania e Puglia.

In accordo con Libera, la sede legale è in via Salgari 7 a Torino, in un immobile confiscato alla mafia e ora utilizzato per servizi di pubblica utilità (con il Performing Media Lab).

Proprio venerdì 6 luglio, alle 8 del mattino, quasi un centinaio di persone si sono presentate vestite di rosso davanti al Palazzo di Giustizia per inscenare la performance teatrale “Mi manifesto!” guidata dal coreografo Mauro Lizzi, invitando chiunque a manifestarsi ed essere presente nell’impegno contro un fenomeno invece nascosto, com’è la corruzione. Ne è nato uno spot visibile sul canale Youtube dei Signori Rossi, ripreso dai principali siti e blog italiani (Corriere.it, Lastampa.it, Ilfattoquotidiano.it, Beppegrillo.it) e sui social media.

Contemporaneamente abbiamo lanciato la campagna dal basso con gli “Spot anti-corruzione fatti a mano”, girando con un cellulare alcuni video “pilota” della durata di 1’, con protagoniste le mani, simbolo delle “mani pulite” ma anche del fare, quindi per noi dell’agire sociale.

Tutte queste azioni a costo zero hanno l’obiettivo di raggiungere, in modo leggero e umoristico, chi di questi temi non vuole sentire parlare (con il pensiero ricorrente per cui “Sono tutti ladri”, “Tanto non cambia niente” ecc). Serve appunto ad aumentare la sensibilità sul tema.

E poi ci siamo dati un’ulteriore finalità. Partire dal quotidiano, dai comportamenti ordinari, invocando la ricerca dell’agire etico e corretto, individuando quali sono le nostre piccole e grandi “devianze” giornaliere che corrompono il nostro pensiero e quindi le nostre azioni.

Abbiamo colto l’occasione per stimolare l’agire dii cittadini comuni che ci hanno contattato (sono migliaia), suggerendo alcuni comportamenti da attuare subito. Per questo abbiamo rivolto in un senso positivo una frase tipica della corruzione – “C’è anche la tua parte!” – e sintetizzato cosa può fare ognuno per contribuire alla lotta alla corruzione dei Signori Rossi: sensibilizzare i cittadini sullo stato dei processi per corruzione in corso nella propria regione; sostenere chi denuncia la corruzione e testimonia in tribunale; organizzare localmente mobilitazioni e azioni educative sul tema della corruzione e dell’etica nella pubblica amministrazione; chiedere alle Istituzioni locali di adottare la Carta di Pisa, il codice etico promosso da Avviso Pubblico, ed estendere la sua applicazione alle aziende pubbliche; presidiare le aziende che gestiscono i beni comuni per garantire etica (lungimiranza, efficienza, competenza, trasparenza, partecipazione).

* Stefano Di Polito e Alberto Robiati (direttori dell’agenzia di comunicazione sociale Laboratorio Creativo www.laboratoriocreativo.com) sono fondatori con Raphael Rossi dell’associazione Signori Rossi e autori della campagna “MI MANIFESTO!” che mira a contrastare la corruzione e a promuovere la cultura etica nella gestione dei beni comuni e della pubblica amministrazione

Sentenza Amiat: il commento dell’esperto di corruzione prof. Alberto Vannucci

Il prof. Alberto Vannucci, politologo ed esperto di studi sulla corruzione, nonché direttore del Master di Analisi Prevenzione Contrasto della criminalità organizzata e della corruzione dell’Università di Pisa, commenta così la conclusione del processo: “Il lato positivo è che la vicenda ha suscitato notevole partecipazione a livello di cittadinanza, con la costituzione della rete dei Signori Rossi, che hanno creato sensibilizzazione dal basso su un tema poco conosciuto.
D’altra parte, c’è una dimensione che spinge quantomeno a riflettere: le condanne con la condizionale, dunque senza il carcere, le sanzioni lievi se paragonate all’ammontare della tangente, e addirittura la matematica prescrizione che fermerà il ricorso in appello dei condannati. In particolare quest’ultima è un’anomalia drammatica che l’Italia condivide solo con la Grecia: in nessun altro ordinamento giuridico di altri paesi è prevista infatti la prescrizione nei casi in cui c’è stata una condanna in precedenti gradi di giudizio. Cioè ovunque si va fino alla fine, mentre da noi e in Grecia ci si ferma per prescrizione. Senza considerare poi che i tempi di prescrizione previsti sono del tutto incompatibili con la durata media dei processi. Questo aspetto grida vendetta di fronte al nostro senso di giustizia.
Tali elementi quindi sono la conferma di come in Italia la corruzione, definita ‘crimine senza vittima’ come categoria teorica, è diventata un ‘crimine senza pena’, perché chi lo commette non paga. Di fatto la corruzione è depenalizzata, in un clima da ‘liberi tutti’ che ha forti giustificazioni e profonde radici nel nostro paese.
Ecco questo è il risvolto drammatico, che non ha niente a che fare con l’ottimo lavoro che fa la magistratura ma che riguarda in modo diretto il nostro sistema giudiziario e le gravi carenze in tema di corruzione. Su questo terreno occorre infatti un altro tipo di sensibilizzazione, rivolto a chi legifera”.